domenica 27 giugno 2010
sabato 19 giugno 2010
Siccome c'è il mondiale di calcio
mi sembra giusto ripostare la seguente su Moacyr Barbosa (pezzo di Darwin Pastorin) :
Su di tutti, però, mi è venuta in mente la storia ancor più triste di Moacyr Barbosa, protagonista di quella finale indimenticabile del 16 luglio 1950, che segnò una nazione e decretò la fine di un'uomo.
Partita tanto decantata dai nostri avi e dagli almanacchi da farmi vedere e rivedere svariate immagini e leggere vari articoli.
Così, stasera, vorrei approfittarne per raccontare la sua storia, anzi, la tua storia (se mi conseti il tu), Moacyr, perchè certe cose non si dimenticano, non vanno dimenticate anche se ormai lontane più di 50 anni.
Perchè il calcio, in fondo, non è altro che il racconto di tante storie.
Ricordo quel silenzio, Moacyr Barbosa, c'era solo quel silenzio. E tu per terra. E il pallone in rete. E quel silenzio. Duecentoventimila persone ammutolite. Gli uruguayani si abbracciarono senza dire una parola. Ghiggia, l'autore del gol del 2-1 dell'Uruguay sul Brasile, aveva le lacrime agli occhi: forse non era felicità, forse era la consapevolezza di aver decretato la fine di un'uomo. Obdulio Varela, il capitano della Celeste, mormorò ai suoi compagni:"Adesso sì, adesso potete guardare in alto, la gente. Ora non fa più paura".
Tu, Moacyr, chinasti il capo per la prima volta nella tua vita. Tu, primo portiere nero della Nazionale brasiliana, avevi subito mille offese, "negro!" ti urlavano con disprezzo: ma mai avevi abbassato la testa. Nemmeno quando, nel 1940, un barbiere di Porto Alegre ti schiumò in faccia: "Vattene, qui non serviamo i negri". Tu semplicemente, lo guardasti fisso negli occhi. Sorridendo, sì sorridendo. E fu lui ad arrossire.
16 luglio 1950, ultimo atto della Coppa Rimet, stadio Maracanà di Rio de Janeiro: tu, Moacyr, sei morto quel giorno. Per una rete. Non ci fu nessuna festa, nessun carnevale, nessun suono di tamburo, nessuna stella filante. Il Brasile scopriva il dolore del pallone. Il 7 aprile 2000 sei morto, a 79 anni, un ictus, hanno decretato i medici. Non è vero. Tu sei morto per un gol, la tua è stata una condanna a vita, per una colpa non commessa. I giornalisti ed i brasiliani sono stati i tuoi assassini. Ti hanno deriso senza regalarti un'ultima parata, un gesto d'affetto. Ti hanno lasciato solo, scegliendo il silenzio e cancellandoti dalle cronache. Dal 1950 ad oggi, ti hanno lasciato per terra, sul prato del Maracanà. In questa misera pagina di questo blog vorrei far conoscere a tutti la tua storia e rendere gloria a te Moacyr, e a quel calcio che ancora conosceva il sentimento, la poesia, l'odore della zolla, la maglia di flanella senza sponsor, pesante d'estate, leggera d'inverno, coi numeri troppo grossi, numeri che narravano l'uomo prima del giocatore, con il giovane apprendista campione che portava la sacca dei palloni e il funambolo che, di nascosto, all'ombra di un'albero, fumava l'ennesima sigaretta.
E il portiere volava da un palo all'altro, proprio come facevi tu, Moacyr Barbosa, gloria del Vasco de Gama e della Selecao. Dai filmati ho visto che avevi quel modo unicamente tuo di bloccare la palla: saltavi con l'attaccante, prendevi il pallone con una mano, lo portavi al petto e soltanto in quel momento lo bloccavi con due mani.
Tu, Moacyr, sei stato un portiere immenso. Pensa che ironia: i giornalisti presenti al mondiale del 1950 ti nominarono miglior estremo difensore della manifestazione! Ma per i brasiliani quella non fu altro che la beffa nella tragedia. Sì, tragedia. Per una partita di calcio. Suicidi, persone impazzite, depresse, incapaci di superare quel trauma. Assurdo, eppure anche a questo riesce ad arrivare l'uomo quando delega ad altro o ad altri la propria felicità. Tutto per quel gol di Ghiggia. "Un gol che ho rivissuto un milione di volte" ripetevi.
Quando passeggiavi con la tua adorata moglie Clotilde, ogni tanto, qualcuno, riconoscendoti diceva: " E' barbosa, quello che ci ha fatto perdere la Coppa. Porta sfortuna". Tu non ascoltavi, tu avevi lei, Clotilde. E in quegli attimi svaniva Ghiggia, svaniva quel gol, svanivano le dicerie. Potevi addormentarti sereno e pensare ai giorni di Campinas, quando lavoravi in una fabbrica di imballaggi e, nel poco tempo libero, ti mettevi tra i pali. Ed eri bravo, attento e spericolato. Ti proposero di andare a provare per l'Ypiranga, uno degli undici club del campionato brasiliano delgi anni quaranta. Con l'Ypiranga, conquistasti 3 titoli paulisti e fu l'inizio di una carriera folgorante. Un nero, portiere? Chi lo avrebbe mai detto? Un nero capace di parare l'impossibile, di respingere le insidie del destino, le contraddizioni di un Brasile multirazziale e cosmopolita, ma socialmente razzista.
Fino al 16 luglio 1950: quel giorno, il fato ti voltò le spalle, Moacyr Barbosa. E cominciò la tua lunga stagine all'inferno. La tua crocifissione. Per un gol. Per un solo, misero gol.
Ho letto da qualche parte che per anni, in Brasile la gente diceva." Qui è come in America, negli Atati Uniti. T'impegni, ti sacrifichi, sputi il sangue e ti sistemi per tutta la vita. Ma se commetti un errore fai la fine di Barbosa". E altri:" E' un nome che va' detto piano, senza farsi sentire. Perchè Barbosa era il portiere del Brasile del Mondiale Maledetto. Se sbagli sei come lui. Morto. Messo alla gogna. Vuoi offendere qualcuno? Dagli del barbosa. Quello diventa una furia".
In tanti anni di calcio, barbosa evitò chissà quanti goal senza mai fare male a nessun attaccante. Ma in quella finale del 1950 l'uruguayano Ghiggia lo aveva sorpreso con un tiro secco dal vertice destro dell'area. Barbosa, che era leggermente avanzato, spiccò un salto all'indietro, sfiorò la palla e ricadde. Quando si rialzò, sicuro di aver deviato il tiro, trovò il pallone in fondo alla rete. E quello fu il gol che sconvolse lo stadio Maracanà e consacrò campione l'Uriguay.
Ho letto che qualche anno fa, nel 1993, durante le eliminatorie per il Mondiale degli Stati Uniti, Barbosa volle fare gli auguri ai giocatori della Nazionale brasiliana. Andò a visitarli in ritiro, ma le autorità calcistiche gli vietarono l'ingresso. Barbosa commentò:" In Brasile la pena più lunga per un crimine è trent'anni di carcere. Io da quarantatrè anni pago per un crimine che non ho commesso".
Su di tutti, però, mi è venuta in mente la storia ancor più triste di Moacyr Barbosa, protagonista di quella finale indimenticabile del 16 luglio 1950, che segnò una nazione e decretò la fine di un'uomo.
Partita tanto decantata dai nostri avi e dagli almanacchi da farmi vedere e rivedere svariate immagini e leggere vari articoli.
Così, stasera, vorrei approfittarne per raccontare la sua storia, anzi, la tua storia (se mi conseti il tu), Moacyr, perchè certe cose non si dimenticano, non vanno dimenticate anche se ormai lontane più di 50 anni.
Perchè il calcio, in fondo, non è altro che il racconto di tante storie.
Ricordo quel silenzio, Moacyr Barbosa, c'era solo quel silenzio. E tu per terra. E il pallone in rete. E quel silenzio. Duecentoventimila persone ammutolite. Gli uruguayani si abbracciarono senza dire una parola. Ghiggia, l'autore del gol del 2-1 dell'Uruguay sul Brasile, aveva le lacrime agli occhi: forse non era felicità, forse era la consapevolezza di aver decretato la fine di un'uomo. Obdulio Varela, il capitano della Celeste, mormorò ai suoi compagni:"Adesso sì, adesso potete guardare in alto, la gente. Ora non fa più paura".
Tu, Moacyr, chinasti il capo per la prima volta nella tua vita. Tu, primo portiere nero della Nazionale brasiliana, avevi subito mille offese, "negro!" ti urlavano con disprezzo: ma mai avevi abbassato la testa. Nemmeno quando, nel 1940, un barbiere di Porto Alegre ti schiumò in faccia: "Vattene, qui non serviamo i negri". Tu semplicemente, lo guardasti fisso negli occhi. Sorridendo, sì sorridendo. E fu lui ad arrossire.
16 luglio 1950, ultimo atto della Coppa Rimet, stadio Maracanà di Rio de Janeiro: tu, Moacyr, sei morto quel giorno. Per una rete. Non ci fu nessuna festa, nessun carnevale, nessun suono di tamburo, nessuna stella filante. Il Brasile scopriva il dolore del pallone. Il 7 aprile 2000 sei morto, a 79 anni, un ictus, hanno decretato i medici. Non è vero. Tu sei morto per un gol, la tua è stata una condanna a vita, per una colpa non commessa. I giornalisti ed i brasiliani sono stati i tuoi assassini. Ti hanno deriso senza regalarti un'ultima parata, un gesto d'affetto. Ti hanno lasciato solo, scegliendo il silenzio e cancellandoti dalle cronache. Dal 1950 ad oggi, ti hanno lasciato per terra, sul prato del Maracanà. In questa misera pagina di questo blog vorrei far conoscere a tutti la tua storia e rendere gloria a te Moacyr, e a quel calcio che ancora conosceva il sentimento, la poesia, l'odore della zolla, la maglia di flanella senza sponsor, pesante d'estate, leggera d'inverno, coi numeri troppo grossi, numeri che narravano l'uomo prima del giocatore, con il giovane apprendista campione che portava la sacca dei palloni e il funambolo che, di nascosto, all'ombra di un'albero, fumava l'ennesima sigaretta.
E il portiere volava da un palo all'altro, proprio come facevi tu, Moacyr Barbosa, gloria del Vasco de Gama e della Selecao. Dai filmati ho visto che avevi quel modo unicamente tuo di bloccare la palla: saltavi con l'attaccante, prendevi il pallone con una mano, lo portavi al petto e soltanto in quel momento lo bloccavi con due mani.
Tu, Moacyr, sei stato un portiere immenso. Pensa che ironia: i giornalisti presenti al mondiale del 1950 ti nominarono miglior estremo difensore della manifestazione! Ma per i brasiliani quella non fu altro che la beffa nella tragedia. Sì, tragedia. Per una partita di calcio. Suicidi, persone impazzite, depresse, incapaci di superare quel trauma. Assurdo, eppure anche a questo riesce ad arrivare l'uomo quando delega ad altro o ad altri la propria felicità. Tutto per quel gol di Ghiggia. "Un gol che ho rivissuto un milione di volte" ripetevi.
Quando passeggiavi con la tua adorata moglie Clotilde, ogni tanto, qualcuno, riconoscendoti diceva: " E' barbosa, quello che ci ha fatto perdere la Coppa. Porta sfortuna". Tu non ascoltavi, tu avevi lei, Clotilde. E in quegli attimi svaniva Ghiggia, svaniva quel gol, svanivano le dicerie. Potevi addormentarti sereno e pensare ai giorni di Campinas, quando lavoravi in una fabbrica di imballaggi e, nel poco tempo libero, ti mettevi tra i pali. Ed eri bravo, attento e spericolato. Ti proposero di andare a provare per l'Ypiranga, uno degli undici club del campionato brasiliano delgi anni quaranta. Con l'Ypiranga, conquistasti 3 titoli paulisti e fu l'inizio di una carriera folgorante. Un nero, portiere? Chi lo avrebbe mai detto? Un nero capace di parare l'impossibile, di respingere le insidie del destino, le contraddizioni di un Brasile multirazziale e cosmopolita, ma socialmente razzista.
Fino al 16 luglio 1950: quel giorno, il fato ti voltò le spalle, Moacyr Barbosa. E cominciò la tua lunga stagine all'inferno. La tua crocifissione. Per un gol. Per un solo, misero gol.
Ho letto da qualche parte che per anni, in Brasile la gente diceva." Qui è come in America, negli Atati Uniti. T'impegni, ti sacrifichi, sputi il sangue e ti sistemi per tutta la vita. Ma se commetti un errore fai la fine di Barbosa". E altri:" E' un nome che va' detto piano, senza farsi sentire. Perchè Barbosa era il portiere del Brasile del Mondiale Maledetto. Se sbagli sei come lui. Morto. Messo alla gogna. Vuoi offendere qualcuno? Dagli del barbosa. Quello diventa una furia".
In tanti anni di calcio, barbosa evitò chissà quanti goal senza mai fare male a nessun attaccante. Ma in quella finale del 1950 l'uruguayano Ghiggia lo aveva sorpreso con un tiro secco dal vertice destro dell'area. Barbosa, che era leggermente avanzato, spiccò un salto all'indietro, sfiorò la palla e ricadde. Quando si rialzò, sicuro di aver deviato il tiro, trovò il pallone in fondo alla rete. E quello fu il gol che sconvolse lo stadio Maracanà e consacrò campione l'Uriguay.
Ho letto che qualche anno fa, nel 1993, durante le eliminatorie per il Mondiale degli Stati Uniti, Barbosa volle fare gli auguri ai giocatori della Nazionale brasiliana. Andò a visitarli in ritiro, ma le autorità calcistiche gli vietarono l'ingresso. Barbosa commentò:" In Brasile la pena più lunga per un crimine è trent'anni di carcere. Io da quarantatrè anni pago per un crimine che non ho commesso".
giovedì 17 giugno 2010
lunedì 14 giugno 2010
10 giugno 2010
Maledetto io e maledetto il mio insensato, inutile e ridicolo bisogno d'amore.Mi chiedono come faccio a stare sempre da solo, che ipocrisia.La solitudine non è essere soli, ma amare gli altri inutilmente.
(Daniele M. Spalluto)
(Daniele M. Spalluto)
sabato 5 giugno 2010
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