martedì 20 maggio 2008
Sullo scudetto dell'inter...
DI BEPPE SEVERGNINI
E adesso, cosa dite? Lo scudetto 2007 era troppo facile, quello del 2006 troppo formale, quello dell'89 troppo lontano. Questo, vi piace? A noi, molto. Numero sedici, alla faccia dei sadici. L'immagine che resta negli occhi è quella di Ibra che dribbla le pozzanghere, felice come un bambino in un parco
«Lo zingaro» — come lo chiamano i compagni di squadra, in barba alle notizie di cronaca — è rientrato e ci ha fatto questo regalo. «Pazza Inter» è un eufemismo. Siamo, ormai, psicolabili di successo. A questo punto, perché cambiare? Avanti così. Se l'interismo è una forma di allenamento alla vita, nell'ultimo mese — un derby da dimenticare, punti buttati, rigori sbagliati — ci siamo allenati benissimo. Se il tifo calcistico è un esercizio di gestione dell'ansia, siamo gestori professionali. Se il calcio è un romanzo popolare, questo finale è stato scritto da qualcuno che se ne intende. Per 54 minuti, ieri, l'Inter è stata dietro la Roma. Sembrava stesse per buttare tutto quello che aveva costruito in un anno. Poi due gol, e alcune notizie di contorno (puniti i giustizieri del gaucho Cuper, salvi i ragazzi del ragno Zenga, in Europa gli artigiani di Prandelli, fuori dal grande giro i reduci di Ancelotti). L'Inter ce l'ha fatta, con l'uomo più talentuoso, nel modo più emozionante, al termine della giornata più complicata giocata sul campo più malconcio. Meglio così. Vittorie, amori, amicizie e traguardi: solo le cose che non valgono niente costano poco. L'Italia del tifo, trasformata in una voliera di gufi goffi e benevoli avvoltoi, era pronta a festeggiare un altro disastro, un 5 maggio a scoppio ritardato (vero Lapo, vero Veronesi, vero Zecchi?). Niente da fare, stavolta. L'Inter, imbarazzata dalle conversazioni telefoniche col discutibile factotum, e nauseata dal tempismo della diffusione, ha saputo reagire. Trasformare una crisi in una festa è una dote. L'Inter ce l'ha. Ha ragione Massimo Mo-ratti, il cui volto, ripreso nell'intervallo al Tardini di Parma, faceva sembrare spensierato «L'urlo» di Munch: tutti — con l'eccezione dei laziali, per motivi evidenti — tifavano contro l'Inter. Alcuni legittimamente (i romanisti), altri nostalgicamente (gli juventini), altri per rispetto della tradizione (i milanisti). Niente di male. Nelle fazioni — gruppi, bande, corporazioni, congregazioni, partiti, contrade — l'Italia cerca protezione e consolazione. Perché il calcio dovrebbe essere diverso? Basta saper smettere per tempo, e poi sorridere dei propri infantilismi. Ma non è stato soltanto il tempo della malignità (punita). È stata anche la stagione agitata di un Paese inquieto.
I cambiamenti politici e la precarietà economica, l'umiliazione di Napoli e gli umori xenofobi, la confusione e il senso di insicurezza (per una badante irregolare, per una strada buia) hanno portato molti italiani a trasferire sul calcio tante aspettative: serenità, orgoglio, rivincita. Il calcio, che non ama le responsabilità, ha fatto quello che ha potuto. Vista l'atmosfera, il campionato è stato miracoloso: come andamento, come trama, come regolarità. Sbaglia Daniele De Rossi quando, deluso, parla di «sette/otto partite falsate». Non è vero. Il problema è invece un altro — sempre il solito. Il brutto è che un calcio così bello — una Roma epica, una Juventus lirica, un Milan shakespeariano — è ancora in mano ai violenti. Coltelli intorno agli stadi; trasferte vietate; le botte come passatempo. Ieri, a Parma, gli ultrà nerazzurri (?) hanno ferito due agenti e devastato un asilo. Ha più neuroni Ibra nel piede che certa gente nel cervello. Risultato: anche la gioia è diventato un esercizio difficile, in Italia. Ma non bisogna rinunciare: è necessario pretendere le nostre pause di piacere innocuo. È giusto che io abbia potuto guardare la partita con mio padre Angelo (1917) e mio figlio Antonio (1992), e scoprirmi più smaliziato di uno e più emozionato dell'altro. Alla fine avevamo un pomeriggio di pioggia da ricordare, una bottiglia da stappare e una bandiera da esporre. Niente più polvere: ormai prende aria ogni anno
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